Ultimo Chisciotte


freely adapted from Miguel De Cervantes

adaptation and direction Maria Grazia Cipriani 

assistant director Jonathan Bertolai

music Giacomo Vezzani

lights Fabio Giommarelli

sound engineer Luca Contini

props  Giacomo Pecchia

costume assistant Rosanna Monti 

stage photos  Claudio di Paolo



Actors

Ian Gualdani

Stefano Scherini

Giacomo Vezzani

Director's notes

english version coming soon

 

“Sognare il sogno impossibile

Raggiungere la stella irraggiungibile

Amare in modo casto ed anche da lontano

Combattere per ciò che è giusto

Tentare quando le braccia sono troppo stanche

Essere disposti a marciare all’inferno

Per una causa divina

…Seguire quella stella

Non importa quanto sia priva di speranza

Non importa quanto sia distante…”

 

Il nostro “Ultimo Chisciotte”, scalcagnato vagabondo dell’impotenza, continua ad inseguire l’utopia, facendola giocare con la realtà.
Si apre il sipario sul fascino e la dannazione di quell’uomo che, come nel testo di Cervantes, si fa attore e personaggio per misurarsi con il “polverio” del palcoscenico come col polverio delle cose e del mondo, perduto tra la realtà rappresentata e quella autentica.

E Sancio? Personaggio quasi improvvisato rispetto a quello di Chisciotte, già psicologicamente costruito, è un giovanissimo “servo di scena”, leggero come un folletto che tra una capriola, un guizzo e uno sberleffo, cerca di capovolgere i valori del padrone dimostrandogli che ogni linea dritta nasconde un rovescio storto.

Ma il suo sarà un percorso che lo vedrà lentamente abbracciare il valore chisciottesco, come un discepolo che ha imparato e amato una lezione di vita dal proprio maestro fino a farla sua.

E farsi lui stesso ultimo Chisciotte, in un inno alla rinascita dell’utopia.

Il palcoscenico, nudo di supporti scenografici, munito esclusivamente degli elementi propri…graticcia, corde, scale, cantinelle, casse, costumi…specchio di quell’ambiguità dove tutto è finzione e insieme verità, è esso stesso scenografia.

 

……Così, metafora dell’incontro, e conseguente liberazione di prigionieri incatenati, ecco calare dall’alto gabbiette con uccelli cinguettanti stridor d’aiuto, che Chisciotte si appresta a liberare con il relativo sconquasso che ne deriva……

...... Oppure in un gioco di luci e sonorità, accecati dal polverio della battaglia, in un cerchio di risate di scherno nemiche, ecco Chisciotte mulinare una lunga cantinella a mo’ di lancia e girare vorticosamente su se stesso…per poi cadere a terra come una pertica, sfinito dalla lotta……

......O ancora, e sono solo costumi semoventi, andare in soccorso di giovinette perseguitate e braccate da creature mostruose, che trasformano il loro tremore in accattivante danza sensuale……

 

Mentre l’impareggiabile Dulcinea, unica signora dei più segreti pensieri, primo oggetto del desiderio, è la donna che non esiste, puro e doloroso miraggio.

                                                                                                                        Maria Grazia Cipriani

 



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Reviews

I sogni infranti dell'"Ultimo Chisciotte"-Il Manifesto

Gabriele Rizza

A Lucca lo spettacolo del Teatro Del Carretto. Maria Grazia Cipriani alla regia, la musica è il suo “antidoto” alla rinuncia.
Un ronzio, come da elicotteri, alla fine sorvola la scena. Echi da Vietnam. Finita la stagione picaresca dei mulini a vento, altre pale ben più arrotanti, aspettano Sancho Panza. Si dipana quindi come un passaggio di consegne, una eredità non da poco, con addosso un che di militanza sessantottesca, quella che tocca al fedele scudiero del cavaliere “che raddrizza i torti” partorito dalla fantasia di Cervantes. Don Chisciotte, intrappolato nei suoi deliri, coperto da un sudario bianco quasi fosse una camicia di forza, cerca invano una via d’uscita. Non diciamo di salvezza. Un pertugio che neppure la stella cometa di Dulcinea riesce ad indicare.
Trasmette un senso di smarrimento e di impotenza, come inutili smargiassate ansiose di protendersi sul baratro della follia, l’Ultimo Chisciotte uscito dalla vaporosa fucina del Teatro Del Carretto, al debutto assoluto nei giorni scorsi a Lucca sul palcoscenico del Giglio per la regia di Maria Grazia Cipriani. Il teatro è un mondo di marionette aggrappate a esili fili. Una polverosa arena di inutili sforzi e forse anche di inutili metamorfosi. Una sequenza di agonia. Un luogo a perdere dove non serve la letteratura (le pagine del libro verranno bruciate), non serve la forza delle braccia né la disciplina cavalleresca (vecchie le regole ne prefigurano fin da subito la sconfitta), dove non fioriscono ideali e maturano sogni, dove si sfarina l’utopia stessa dell’amore cortese.
Unico soprassalto nel mondo dei vivi, questa sì contagiosa energia, la musica. Che Cipriani non lesina come antidoto alla rinuncia. Fra Verdi (Rigoletto), Puccini (Manon Lescaut), Ravel (Bolero), The impossible dream, Besame mucho e Je t’aime, moi non plus, i tre interpreti provano, ciascuno a suo modo, a rialzarsi.

“Ultimo Chisciotte”, l’Esempio del Teatro Del Carretto- Paneacquaculture.net

Matteo Brighenti

Il mondo è il palcoscenico dell’impossibile che Don Chisciotte compie a ogni passo. La sua “lancia” è sproporzionata rispetto alla figura. Troppo alta, come gli intenti a cui si aggrappa: raddrizzare ciò che non può essere raddrizzato, la realtà. I colpi sono destinati ad andare a vuoto, le azioni sono senza alcuna speranza, la lotta con se stessi non ha un termine. Eppure, non va giù, non cade a terra, resta in piedi. Fino alla fine. Il sogno e l’amore sono la soluzione di continuità giocata al banco della resistenza da Ultimo Chisciotte, scritto e diretto da Maria Grazia Cipriani per il Teatro Del Carretto
All’ingresso del pubblico in sala, Gualdani è in proscenio, immobile nel suo completo nero all’estremità destra del boccascena del Teatro. Lo scoppio come di un tuono lo risveglia e, insieme, apre il sipario. Spari, bombe, elicotteri. Il giovane si porta dietro il mago Malabruno, ovvero la guerra, spirito del tempo esteriore quanto interiore. Agirà, solo
danzando, il buio delle “ingiustizie” che s’imporranno alla vista di Don Chisciotte e ne tormenteranno l’anima.
Non a caso, infatti, il candido cavaliere errante impersonato da Scherini è vestito tutto di bianco, la biacca in viso, con una barba rossiccia che lo fa assomigliare quasi a un Van Gogh in manicomio. Il colore, anche lui, ce l’ha negli occhi. Crede a quello che vede e risponde di conseguenza, ma è soltanto nella sua testa e, materialmente, sopra: Dulcinea del Toboso e tutte le altre sue fantasmagorie sono costumi appesi in alto, corona di spine e delizia. Un tecnico, seminascosto, aziona funi e contrappesi: siamo legati a fili mossi da qualcuno che interviene, indisturbato, alle nostre spalle (chissà se ci vuole bene o male o, peggio, è indifferente).
Qui ogni cosa è e non è vera o falsa. L’immaginazione è una finzione aperta, dichiarata agli spettatori: il palco fa nuda mostra di sé, con graticcia, corde, scale, casse, lasciate a vista. E poi marionette, maschere e panche, una con su la copia di Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes. Pure la lancia del cavaliere è un elemento proprio della scena: un’asta di legno, una cantinella, materiale base per le scenografie. Con essa l’attore e personaggio Don Chisciotte si costruisce un qualche equilibrio per attraversare il suo coro di visioni e di voci, le vere protagoniste di Ultimo Chisciotte.
Sancho Panza è abbigliato tipo contadino o, piuttosto, artigiano di una simile “bottega teatrale”, che pare affacciarsi su un vicolo di Napoli, città molto amata da Cervantes. E un po’ Sancho è anche l’autore di Don Chisciotte, dal momento che unisce alla sua parte in commedia la lettura di brani presi dal libro appoggiato sulla panca – illuminati con una pila dell’“uomo nero” Gualdani, ferocemente curioso. È l’elemento di realtà, cerca spiegazioni, nei fogli e nella rappresentazione, di qualcosa che ragione non ha. Si tratta di un compito laterale e ingrato, così che sceglie di sostenere la pazzia di Don Chisciotte per non apparire lui, ai suoi occhi, il matto. Allora, il dialogo per andare a prendere Dulcinea è di Sancho da solo con Sancho ed è ancora il fido scudiero a dare vita alle marionette quando il cavaliere assiste a uno spettacolo. Le luci inquadrano di taglio i personaggi oppure piovono sull’intero ambiente quando lo scontro di Don Chisciotte è rivolto a tutto il visibile. La storia si fa con quello che c’è, alla stregua delle compagnie di artisti girovaghi, che riscattano le scarse dotazioni di piazza con la maestria del corpo e la virtù dell’ingegno. Gli attori praticano il teatro fisico e lo mutano in danza, prendono in mano il teatro di figura e lo piegano al monologo d’attore. Fiamme di un unico fuoco, pezzi di un puzzle che restituiscono un’immagine d’antan disegnata a mano libera: lo spettacolo medesimo ambisce a essere l’avventura più audace di Don Chisciotte. L’ultima e prima.
Un crescendo, invero, a lungo rimandato, e qua e là esasperato, con corride, Bésame mucho, Je t’aime… moi non plus e l’integrale Boléro di Ravel. L’altalenante ritmo drammaturgico-compositivo segue il rimpallo dei tanti, troppi ruoli che ricopre Sancho Panza, fino alla conclusiva aspirazione a essere cavaliere errante. È lui l’ultimo Chisciotte del titolo. Maria Grazia Cipriani gli affida la propria dichiarazione d’amore al fare teatro: chi vede la vita com’è muore disperato, chi, invece, si dà uno scopo, ha un sogno che lo strappa allo sconforto.
La lancia del cavaliere è raccolta, il passaggio del testimone è avvenuto, tra livide luci di servizio e i panni calati sul palcoscenico. Ciononostante, tornano a esplodere i boati della guerra. La scena più che l’esempio non può dare. Ora sta a noi armarci di sogni e partire. Verso dove indica la stella lassù di Dulcinea, l’unica sopravvissuta alle imprese fatte e non fatte.

Ancora un'ultima resa-artalks.net

Sharon Tofanelli

Appuntamento al Giglio di Lucca con la compagnia Teatro del Carretto: torna il dolore universale in L’Ultimo Chisciotte.
Li conosciamo così bene, ormai. Sappiamo con sufficiente sicurezza, lo possiamo anticipare, che troveranno il modo di porsi in equilibrio tra la carnalità e il sublime. Il Teatro del Carretto è sogni materici; il Teatro del Carretto è moto inconsulto, sempre un po’ grottesco, sempre un po’ brillante; è lo sciocco tragico, il ridicolo eroico. In una parola, è garanzia. L’Ultimo Chisciotte, la più recente fatica della Compagnia, per la regia di Maria Grazia Cipriani, ne conferma una volta di più la poetica, tutta volta a sviscerare la civiltà e i suoi miti profondi, già definita in opere quali Amleto, Pinocchio, Le Mille e Una Notte, e la sperimentalistica Iliade, nella quale il corpo degli artisti si raffrontava all’impiego di costrutti meccanici.
L’opera cervantiana è un’indiscussa conferma alla fisicità umana, sebbene non manchi il tipico tratto artigianale del gruppo, che resta fedele alla tradizione del retroscena esposto. Ridotta come sempre ai minimi termini, la scenografia è un ritaglio di vesti appese, intima traccia di umanità trascorsa, che la Compagnia aveva già utilizzato ne Le Mille e Una Notte – nel dramma delle camicie insanguinate a causa del femminicidio e degli stupri etnici. Vesti di vita, ma anche di finzione. Vesti attoriali, che calano a fine spettacolo, come a supplire al sipario che non c’è. E sotto un palco-cantiere, destinato a sporcarsi progressivamente di rosso: man mano che la tragicomica avventura – più volta al dramma che al riso, va detto – si dispiega – grazie a secchiate di polvere scarlatta impresse sul pavimento. Tracce di sangue, di fervore esploso. Il tipico tratto del gruppo, che gioca frequentemente su un delicato minimalismo, su immediate sensorialità e sull’uso di quel linguaggio universale che è il simbolo.
Ed ecco il condottiero. Allampanato, di arti nervosi, si presta all’occhio con l’estetica delle illustrazioni di Daumier e Dalí. Sconfitto fin dalle prime battute, è biasimato da un Sancio-crisalide, ancora in divenire; l’intero dispiegarsi della trama, i cui toni più pessimisti sono stati accentuati, si asciuga nella mimica del Chisciotte, vero e proprio prigioniero di un teatro, anzi di tre: quello fisico e reale, di cui noi soli siamo consapevoli; quello sociale, che mina a togliergli la maschera di cid e applicargli quella di vecchio pazzo; e finalmente la
sua stessa follia, alimentata dalle trovate di Sancio, per la quale la purezza di una veste bianca può sostituire la comparsa di Dulcinea.
Il taglio affilato di certe luci e la schematicità dei costumi permettono ai corpi di spiccare, conferendo al gesto la gravitas di una scultura. Lo stesso nascondimento del colore, involato nei toni neutri, lavora in questa estrazione della forma. E quando in una cromia tanto cheta qualcuno infrange una chiazza di scarlatto, l’impatto sull’occhio non può che essere intenso.
Alla fragilità parca di movimento del Chisciotte fa da contraltare la danza del ballerino – soltanto un esempio del sincretismo artistico del Teatro del Carretto; indossa via via tutti i ruoli, dalla seduttrice al cavaliere alter ego – e qui si dispiega un duello infinito, sulle note di un bolero estenuante.
Anche il comparto sonoro risponde al minimalismo della Compagnia, cedendo sovente il passo al silenzio, o a farneticamenti a fil di voce: Sancio riflette, sbeffeggia il padrone e maggiormente sé stesso, ormai ridottosi allo stesso grado di outsider, suo malgrado. Chisciotte è d’altro canto lento nel parlare: parole snocciolate distintamente, come sassate nello specchio d’acqua. Tra l’uno e l’altro, a distanziarli, è sempre il vuoto del proscenio. A intervallare i loro dialoghi, improvvisi brani situazionali o scatti di suono che ci scuotono brutalmente rigettandoci nella sensorialità dell’opera.
E come di consueto, è un suono a fornirci la rivelazione finale, ultima pressione sul tasto del pessimismo: mentre Sancio ci canta di sogni e speranze su un Chisciotte morente, calano le vesti-sipario; e una cacofonia di morte e bombe satura lo spazio, vanificando gli ideali dell’eroe tragico.
L’Ultimo Chisciotte s’inserisce perfettamente in quello che è lo stile classico del Teatro del Carretto: corpo, artificio, brutalità sensoriali, interdisciplinarietà; e l’onnipresenza del mito, già esemplificato nella scelta dell’ennesimo caposaldo della letteratura europea.

Ultimo Chisciotte- Lo sguardo di Arlecchino

Igor Vazzas

Ultimo Chisciotte, ultimo spettacolo della storica compagnia, primo senza il contributo dello scenografo: è dal buio, dal nero su tutto ciò che lo ha preceduto pur non potendo negarne la presenza, che procede questo canto del cigno visionario e stratificato, ennesimo parto della fantasia di Maria Grazia Cipriani. All’apertura di sipario, l’immota marionetta, sin da prima visibile al lato, si desta: Ian Gualdani, androgino, sinuoso, è muto contrappunto coreutico all’azione; in perenne metamorfosi, abita la nuda scena, ora presenza muliebre dal crine liberato, ora marziale avversario del malconcio e scalcagnato Chisciotte Stefano Scherini. L’hidalgo, macilento, scavato in volto, trucco ostentato, sembra evocare il pinocchiesco Gatto di Ciccio Ingrassia quanto a sconsolata, segaligna spigolosità. La voce, calibratissima, profonda, ben microfonata, è rivolta esclusivamente al suo fulvo Sancho, compare e amico, spalla e confidente. Un’elegia dolente, insistita, caparbia riflessione sulla poesia: stella polare, pensiero costante, l’amata Dulcinea, idealmente rappresa nel dorato vestito sovrastante la scena, scarna quanto il protagonista. Tutto promana dal buio, per ritornarvi, e i pensamenti del Quijote son numeri cui fa eco un Sancho più doppio che interlocutore: riempie di voce argentina e centratissimo canto il silenzio d’una sala col fiato trattenuto. A sigillare i picareschi sintagmi, le secchiate di polvere rubina rovesciate a terra da Gualdani, come sangue essiccato: sbuffi vermigli nello scuro disadorno della scena, accerchiata in alto da una corona di costumi teatrali, appesi, muto coro di assenze ad ascoltare i deliri del cavaliere. Si celebra, così, l’inevitabile sconfitta del teatro, la sua ineluttabile vocazione illusoria, e, al contempo, il suo paradossale trionfo, la sua insostituibilità, nell’articolato gioco di
rovesciamenti e rifrazioni che è, esso stesso, materia scenica pura. Il tutto si rivela commovente, disperato canto d’amore, indomita rivolta nei confronti di un’esistenza necessariamente segnata dal dolore e dalla morte. Questo Chisciotte, ultimo poiché estremo, assume così i tratti d’un testamento, lascito inesorabile quanto pulsante, autentico. E in assetto ci paiono gli inserti musicali, quando a “spezzare” ironicamente il dettato colorandolo di pop d’antan (l’erotismo manieristico di Je t’aime, moi non plus), quando nell’accompagnare un insistito duello, estenuato ed estenuante, nella completa, ipnotica proposizione del Bolero di Ravel. Momenti di sospensione e respiro a puntellare una scrittura di scena che di carrettiano ha il tratto estetizzante e marionettistico, nella sopraggiunta liberazione di un’emotività meno grumosa, più efficace rispetto agli ultimi lavori, quasi l’afflato di morte, qui distintamente percepito, conferisse un’urgenza non inedita, ma ancor più pronunciata. In un momento donchisciottesco per il mondo dello spettacolo, tra il film di Gilliam e altri allestimenti in arrivo, quella del Carretto si segnala lettura tra le più interessanti, acute e oneste.